Cardiologia
Ultimo aggiornamento: 13/05/05
Quale pressione e quantaUna volta tanto, non si guarda alle cause, anche perché nel 90-95% dei casi stabilire la causa dell'ipertensione arteriosa non si può e si parla quindi di ipertensione essenziale (come dire che c'è e tanto basta). Anche senza parlare di eziopatogenesi (cioè, appunto, di cause) c'è comunque molto da dire su un tema apparentemente limitato come la misurazione della pressione arteriosa. Una valutazione fondamentale sia al momento della diagnosi sia in seguito, quando si è avviata la terapia, per controllare se ha successo oppure se è necessario cambiare strada.A rendere fondamentale la misurazione periodica c'è soprattutto un fatto: l'ipertensione, in sé, non dà sintomi o disturbi di cui il paziente possa accorgersi e che, quindi, possano metterlo in allarme. A causa di questa circostanza, per inciso, è frequentissimo che il paziente iperteso si dimentichi di assumere regolarmente i farmaci prescritti, finendo quindi con non curarsi. Di fatto, la percentuale dei pazienti la cui pressione è effettivamente tenuta sotto controllo è bassa, dal 15% (come in Italia) al 30%.Quale pressione?Per cominciare, chiariamo i termini: la pressione che qui interessa è quella del sangue che scorre all'interno delle arterie, a sua volta determinata da molti fattori (volume del sangue, gittata del cuore, resistenza del vaso eccetera). L'unità di misura adottata sono i millimetri di mercurio (sigla mmHg). Le pressioni che si misurano sono due: sistolica o massima, che corrisponde al momento in cui il cuore si contrae e pompa il sangue nei vasi, e diastolica o minima, che corrisponde al momento in cui il cuore si dilata per riempirsi. Di conseguenza, la pressione arteriosa si definisce con due valori: diastolica e sistolica scritti nella forma 140/90 mmHg, che si legge "140 su 90".Ma quanta pressione?Quando una persona può essere definita ipertesa? Il valore soglia, negli anni, non è cambiato: se i valori sono inferiori a 140/90 non si è ipertesi, se sono uguali o superiori, sì. Tuttavia nel tempo, con il crescere dei dati disponibili, si è arrivati a distinguere situazioni differenti e quindi, in base alle ultime linee guida dell'Organizzazione Mondiale della Sanità si parla di:
Pressione ottimale: massima inferiore a 120 mmHg, minima inferiore a 80 mmHg
Pressione normale: massima inferiore a 130 mmHg, minima inferiore a 85 mmHg
Pressione alta normale: massima da 130 a 139 mmHg, minima tra 85 e 89 mmHg
Ipertensione lieve: massima da 140 a 159 mmHg, minima tra 90 e 99 mmHg
Ipertensione moderata: massima da 160 a 179 mmHg, minima tra 100 e 109 mmHg
Ipertensione grave: massima uguale o superiore 180 mmHg, minima uguale o superiore a 110 mmHgIn realtà, all'inizio del 2003 si è assistito a una controversia tra il settimo rapporto del Joint National Committee on Prevention, Detection, Evaluation, and Treatment of High Blood Pressure e le linee guida europee sulla presunta nuova categoria della “preipertensione”.Il documento americano definisce preipertesi i pazienti che presentano valori pressori compresi tra 120/80 e 139/89 mmHg, collocando, quindi, i valori normali al di sotto della soglia 120/80. Questo significherebbe che ben 45 milioni di cittadini dell’Unione Europea andrebbero trattati, in quanto “è facile concludere che le persone così individuate svilupperebbero altrimenti l’ipertensione” ha dichiarato Aram Chobanian, capo del gruppo autore del documento.Le linee europee disapprovano l’introduzione di tale definizione e sottolineano che i soggetti cosiddetti preipertesi possono trarre benefici da eventuali trattamenti solo quando sono presenti altri fattori di alto rischio come, per esempio, diabete, familiarità o storia di ipertensione.Ma a voler interpretare diversamente le indicazioni americane, si potrebbe considerare la preipertensione come una condizione su cui intervenire in termini di cambiamento di stile di vita. Vale la pena di sottolineare la riaffermazione di alcuni capisaldi: ridurre il peso corporeo di 10 kg, per esempio, provocherebbe una riduzione della pressione sistolica di 5-20 mmHg, mentre 2-8 mmHg si perderebbero con la riduzione del sodio dietetico a meno di 6 grammi di sale al dì. Che non fa mai male.La prima misurazione (che non può essere una sola)Per concludere che una persona è ipertesa ci si deve basare su più misurazioni effettuate in diverse occasioni, perché la pressione arteriosa è uno di quei parametri fisiologici soggetti a variazioni anche rilevanti nel corso della giornata, così come per effetto di diversi fattori esterni e interni. Detto questo come va condotta la misurazione?Queste sono le buone regole secondo la letteratura internazionale:
Il paziente, prima di procedere, deve poter restare seduto qualche minuto in una stanza tranquilla
Il medico deve usare un bracciale adatto alle dimensioni del braccio
Se c'è il sospetto di qualche disturbo della circolazione periferica, la misurazione, la prima volta, va condotta su entrambe le braccia
Durante la misurazione, il bracciale deve trovarsi all'altezza del cuore, indipendentemente dalla posizione del paziente
Negli anziani, nelle persone che soffrono di diabete e in altre situazioni in cui è probabile una diminuzione della pressione in posizione eretta la pressione va misurata in piediQuando cambia il contesto...Il classico scenario della misurazione della pressione è nello studio del medico, il più delle volte quello di famiglia. Tuttavia in alcune persone questa situazione genera la cosiddetta "ipertensione da camice bianco" vale a dire un rialzo della pressione, altrimenti normale, dovuto proprio alla presenza del medico.Anche senza arrivare a tanto, studi recenti hanno mostrato come mediamente i valori riscontrati con le misurazioni a casa oppure con la misurazione continua sulle 24 ore, si ottengano mediamente valori inferiori. In concreto, chi nel corso di una misurazione a casa propria ottiene valori di 125/80 mmHg è come se, nello studio del proprio medico, avesse fatto registrare un valore di 140/90, quindi al limite.Serve il fai da te?Per una volta, sì. Se è stata diagnosticata l'ipertensione, l'autocontrollo è importante, ma a patto di rispettare alcune regole.Meglio automisurarsi la pressione a casa propria, perché è comunque necessario osservare quel rilassamento di 5 minuti di cui si diceva sopra, e in farmacia non è così semplice ottenere le stesse condizioni.Meglio scegliere un apparecchio automatico, perché quelli professionali richiedono una certa abilità, non fosse altro che per individuare, allo stetoscopio, i toni di Korotkoff, cioè i suoni sulla cui scomparsa ci si basa per stabilire la pressione diastolica. Gli apparecchi automatici visualizzano il risultato su un display o lo stampano. Il solo difetto di questi apparecchi è la tendenza a stararsi. Per questo ogni sei mesi bisognerebbe riportarli al negozio di sanitari per farli rimettere a punto.Meglio annotare su una sorta di diario i valori rilevati, così da poter riferire al medico un credibile andamento della pressione nel corso del tempo.E' il caso poi di ricordare che se si registrano valori di pressione normali, questo non significa che il paziente possa ridursi il dosaggio dei farmaci o, peggio, sospenderli a suo giudizio. In fatti la pressione è nella norma proprio grazie al farmaco. L'ipertensione è una condizione cronica che va curata vita natural durante.
giovedì 5 luglio 2007
sabato 30 giugno 2007
aneurismi
Malattie e disordini neurochirurgici
Patologia vascolare
Cosa s'intende per aneurisma cerebrale?
Gli aneurismi cerebrali sono congeniti o ne vengono riconosciute delle cause?
Sono affezioni frequenti e quale età è più colpita?
Quali sintomi provocano?
Cosa comporta la rottura di un aneurisma?
L'emorragia da rottura di un aneurisma può essere definita un "ictus"?
Quali sono gli effetti dell'emorragia subaracnoidea?
L'aneurisma può essere un reperto occasionale?
Un emorragia subaracnoidea è dovuta sempre alla rottura di un aneurisma?
Quali indagini vengono eseguite per la loro diagnosi?
Vi sono cure mediche?
Qual è la terapia degli aneurismi?
Vi sono metodiche di trattamento non chirurgiche?
In che cosa consiste l'intervento chirurgico?
Quali rischi ho se non mi opero?
Quali rischi ho se mi opero?
Quale vita dopo l'emorragia e l'intervento chirurgico?
Cosa s'intende per aneurisma cerebrale?
Gli aneurismi cerebrali sono delle dilatazioni circoscritte delle arterie intracraniche di forma varia, ma generalmente sacculare, le quali si formano per progressivo sfiancamento di un piccolo tratto della parete arteriosa là dove vi è stata la perdita della lamella elastica; la parete dell'aneurisma per questo è estremamente fragile e suscettibile di rottura in quanto priva della normale protezione.
Gli aneurismi cerebrali sono congeniti o ne vengono riconosciute delle cause?
Non vengono definiti congeniti nel vero senso della parola, anche se vi sono state svariate ricerche e teorie in merito, ma più propriamente sono congenite alcune anomalie del calibro e della suddivisione di alcune arterie cerebrali, più precisamente di quel circolo anastomotico "ad anello" che unisce alla base praticamente tutte le arterie che si diramano al cervello e che va sotto il nome di "circolo di Willis" (da colui che lo descrisse nel 1664, nell'opera "Cerebri anatome"). Queste anomalie sono l'origine di progressive alterazioni circolatorie circoscritte del tutto asintomatiche (turbolenze) che causano nel tempo l'erosione e lo sfiancamento di alcuni tratti della lamella elastica delle arterie.Questa è la base patogenetica primaria; tuttavia vengono riconosciute delle cause secondarie e scatenanti tra cui, la più importante, l'ipertensione arteriosa o attività fisiche che implicano un brusco aumento della pressione arteriosa.
Sono affezioni frequenti e quale età è più colpita?
La gravità della malattia e la delicatezza della terapia fanno emotivamente sembrare tali affezioni molto frequenti. In realtà gli aneurismi cerebrali incidono mediamente in 10 casi per 100.000 abitanti. Si manifestano molto raramente nella prima decade di vita e divengono sintomatici con l'avanzare dell'età: più della metà si manifesta tra i 40 e i 60 anni. Le donne sono colpite più frequentemente degli uomini.
Quali sintomi provocano?
L'aneurisma, nella maggior parte dei casi, è una malformazione di piccolo volume a sviluppo lento o nullo e senza alcuna manifestazione clinica. I sintomi quindi sono associati alla sua rottura che generalmente avviene in modo improvviso e senza sintomi premonitori. I sintomi vanno dalla cefalea ai disturbi dello stato di coscienza, ai deficit neurologici sino alla morte in un terzo dei casi. La cefalea è il sintomo più comune e insorge nell'85-97% dei casi: è improvvisa e molto violenta, ben diversa pertanto dalle comuni e diffuse cefalee da altre cause.Nei casi in cui l'aneurisma è adiacente ad alcuni nervi cranici oppure è di notevoli dimensioni (aneurismi "giganti" oltre i 2,5 cm di diametro) possono manifestarsi dei sintomi specifici da compressione. Più frequentemente è interessato uno dei nervi cranici della motilità oculare per cui il paziente ha una diplopia (vede doppio).
Cosa comporta la rottura di un aneurisma?
La rottura di un aneurisma determina sempre un particolare tipo di emorragia che si definisce "subaracnoidea", nel frammezzo di quel foglietto meningeo molto sottile che ricopre la superficie del cervello e penetra come una ragnatela (dal greco "aracnoidè" = tela di ragno) accompagnando i vasi nei profondi anfratti e lacune cerebrali ("solchi" e "cisterne"). È pertanto un'emorragia generalmente diffusa, che interessa la superficie del cervello, anche se può avere delle localizzazioni specifiche. Meno frequentemente si ha un sanguinamento intracerebrale con conseguente ematoma.
L'emorragia da rottura di un aneurisma può essere definita un "ictus"?
Ictus deriva dal latino e significa colpo e quindi in termini traslati "evento improvviso". Anche l'emorragia subaracnoidea, come un infarto cardiaco del resto, può essere definita un evento ictale. Tuttavia per una abituale accezione comune, l'ictus cerebrale è una patologia diversa, dovuta a quegli eventi molto più frequenti di insufficienza circolatoria cerebrale (ischemie cerebrali) o alla rottura di piccoli capillari arteriosi cerebrali (emorragie cerebrali) ed è pertanto da tenere distinta dall'emorragia da rottura di un aneurisma.
Quali sono gli effetti dell'emorragia subaracnoidea?
A parte gli intuibili effetti di compressione locale in quei casi di ematoma intracerebrale, la diffusione spesso estesa e diramata dell'emorragia subaracnoidea esercita un'azione negativa più dal punto di vista chimico che meccanico con gravissimi quadri (coma, morte) anche in presenza di uno stravaso di sangue relativamente modesto. Si descrive, infatti, un'azione tossica da parte di alcune sostanze liberate dalla rottura dei globuli rossi direttamente sulle cellule cerebrali (edema e/o necrosi della cellula) e sugli stessi vasi arteriosi che possono restringersi abnormemente ed impedire l'afflusso di sangue procurando un'ischemia spesso irreversibile ("vasospasmo"). Questa azione tossica può presentarsi dopo qualche giorno dall'evento emorragico e può interessare un paziente anche in ottime condizioni cliniche.
Vasospasmo all'angiografia.
Risoluzione del vasospasmo.
L'aneurisma può essere un reperto occasionale?
Gli aneurismi cerebrali possono essere dei reperti occasionali nel corso di indagini diagnostiche eseguite per altri motivi. Sono questi i casi degli "aneurismi non rotti" la cui prognosi è legata ad un più favorevole trattamento in quanto il cervello non è stato interessato dall'episodio emorragico e dalle sue eventuali conseguenze.
Un emorragia subaracnoidea è dovuta sempre alla rottura di un aneurisma?
Non sempre. In una percentuale media del 10% circa dei casi in cui si sospetta per la sintomatologia un'emorragia subaracnoidea, l'accertamento diagnostico specifico, l'angiografia cerebrale, può risultare negativo. Si tratta dell'emorragia subaracnoidea definita "sine materia" e la prognosi è molto buona. Solo una piccolissima percentuale di questi casi tuttavia risulta positiva per aneurisma dopo un secondo controllo angiografico.
Quali indagini vengono eseguite per la loro diagnosi?
Prima di ogni indagine è estremamente importante la tempestiva interpretazione delle peculiari caratteristiche della cefalea e l'invio precoce in strutture sanitarie attrezzate.Il primo esame, da eseguirsi d'urgenza, è la Tomografia Computerizzata encefalica. Se questo non dovesse mostrare l'emorragia e la sintomatologia clinica è caratteristica, bisogna eseguire una puntura lombare che è in grado di evidenziare l'eventuale presenza di sangue nel liquor.La Tomografia Computerizzata encefalica è importante per esprimere la quantità di sangue negli spazi cerebrali (solchi e cisterne) ed avere una previsione prognostica relativa: una maggior quantità globale di sangue può essere indice di una maggiore probabilità di effetti tossici (vasospasmo).La diagnosi definitiva di aneurisma cerebrale tuttavia è affidata all'angiografia encefalica che si esegue ponendo un lungo catetere nell'arteria della coscia, all'inguine, (l'arteria femorale) portandolo fino alle arterie del collo (carotide e vertebrale) visualizzando tutti i vasi dell'encefalo. Così si può avere la conferma della presenza dell'aneurisma e la sua sede.Anche la Risonanza Magnetica e, oggi, le più recenti Tomografie Computerizzate (angio-TC) sono in grado di visualizzare le malformazioni vascolari in modo da poter evitare, in molti casi, l'angiografia diretta.
Vi sono cure mediche?
La terapia medica iniziale, che deve essere la più tempestiva possibile non è specifica per il trattamento degli aneurismi, ma limita o previene quegli effetti tossici legati all'emorragia subaracnoidea: i più importanti sono gli antiedemigeni cerebrali (diuretici come il "mannitolo" e cortisonici ad alte dosi), i sedativi ed i farmaci calcio-antagonisti. Importante è il trattamento dell'insufficienza respiratoria nei pazienti comatosi: questo deve essere eseguito in precedenza a qualsiasi altro provvedimento, anche diagnostico. Un ulteriore abbassamento dell'apporto di ossigeno comporta un ulteriore danno ad un cervello che ha già subito un'emorragia.
Qual è la terapia degli aneurismi?
La terapia specifica è quella chirurgica. Essa consiste nell'esclusione della sacca aneurismatica dalla circolazione arteriosa, impedendone così il risanguinamento.
Vi sono metodiche di trattamento non chirurgiche?
Alcuni decenni fa' prima dell'avvento delle tecniche microchirurgiche, il trattamento chirurgico degli aneurismi cerebrali era caratterizzato da tassi di mortalità molto elevati.
Duplice aneurisma: da un lato esclusione con clip, dall'altra con spirali.
Oggi la tecnica microchirurgica riesce ad avere degli eccellenti risultati e praticamente sia la morbilità che la mortalità sono legate alle conseguenze dell'emorragia e non al provvedimento chirurgico. Quanto, comunque, questo rimane ancor sempre una chirurgia delicata che andrebbe eseguita da chirurghi dedicati.Negli ultimi anni si è sviluppata una tecnica endovascolare, di chiusura della sacca dall'interno con dei microcateteri. Con la sua diffusione si stanno capendo meglio le indicazioni migliori e sembra porsi oggi come una metodica complementare a quella chirurgica.
In che cosa consiste l'intervento chirurgico?
L'intervento chirurgico comporta una tricotomia limitata, generalmente anteriore appena dietro l'attaccatura dei capelli, destra o sinistra sopra la fronte oppure dietro l'orecchio per alcune forme di aneurisma posteriore ed, infine, una tricotomia totale in caso di aneurismi multipli. L'incisione cutanea è limitata ed invisibile dopo la nuova crescita dei capelli.Lo sportello osseo (opercolo) è di pochi cm di diametro e il raggiungimento dell'aneurisma avviene attraverso le fessure naturali del cervello ("solchi" e "scissure").
Varie fasi chirurgiche di chiusura della sacca aneurismatica.
Per chiudere l'aneurisma si usano una o più clips metalliche (sofisticate mollette in titanio) che vengono poste a livello del "collo" dell'aneurisma, chiudendolo, ma lasciando libere le arterie normali della circolazione cerebrale.
Aneurisma cerebrale.
Esclusione dell'aneurisma con clips.
Quali rischi ho se non mi opero?
Per quanto il rischio di una rottura dell'aneurisma non sia statisticamente alto (4% all'anno), l'attuale tecnica chirurgica ha fatto sì che in presenza di un aneurisma cerebrale si pone l'indicazione chirurgica. È ovvio che andranno valutate le condizioni generali e l'età del paziente. Il limite d'età più frequente è di 75 anni.
Quali rischi ho se mi opero?
L'intervento chirurgico ha di per sé rischi nettamente inferiori all'evoluzione naturale che prevede una probabilità di risanguinamento del 15-20% entro due settimane e del 50% entro sei mesi con una media del 3% per anno. È pertanto la terapia di scelta. La mortalità legata all'intervento chirurgico è globalmente del 10 % comprese tutte le categorie di pazienti, mentre scende a 0% negli aneurismi non rotti e a poco più dell'1% nei casi con emorragia subaracnoidea senza iniziali segni neurologici. La possibilità di avere una paresi transitoria o definitiva è generalmente legata all'insorgenza precoce o tardiva (anche qualche giorno dopo l'intervento) al vasospasmo dovuto agli effetti tossici dell'emorragia e secondariamente alla stimolazione meccanica delle arterie.
Quale vita dopo l'emorragia e l'intervento chirurgico?
Nel paziente possono esitare le eventuali conseguenze dell'emorragia. Se il soggetto ha superato bene l'emorragia e quindi anche l'intervento, può riprendere una vita normale.
L'emorragia subaracnoidea
Strategie di gestione
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Patologia vascolare
Cosa s'intende per aneurisma cerebrale?
Gli aneurismi cerebrali sono congeniti o ne vengono riconosciute delle cause?
Sono affezioni frequenti e quale età è più colpita?
Quali sintomi provocano?
Cosa comporta la rottura di un aneurisma?
L'emorragia da rottura di un aneurisma può essere definita un "ictus"?
Quali sono gli effetti dell'emorragia subaracnoidea?
L'aneurisma può essere un reperto occasionale?
Un emorragia subaracnoidea è dovuta sempre alla rottura di un aneurisma?
Quali indagini vengono eseguite per la loro diagnosi?
Vi sono cure mediche?
Qual è la terapia degli aneurismi?
Vi sono metodiche di trattamento non chirurgiche?
In che cosa consiste l'intervento chirurgico?
Quali rischi ho se non mi opero?
Quali rischi ho se mi opero?
Quale vita dopo l'emorragia e l'intervento chirurgico?
Cosa s'intende per aneurisma cerebrale?
Gli aneurismi cerebrali sono delle dilatazioni circoscritte delle arterie intracraniche di forma varia, ma generalmente sacculare, le quali si formano per progressivo sfiancamento di un piccolo tratto della parete arteriosa là dove vi è stata la perdita della lamella elastica; la parete dell'aneurisma per questo è estremamente fragile e suscettibile di rottura in quanto priva della normale protezione.
Gli aneurismi cerebrali sono congeniti o ne vengono riconosciute delle cause?
Non vengono definiti congeniti nel vero senso della parola, anche se vi sono state svariate ricerche e teorie in merito, ma più propriamente sono congenite alcune anomalie del calibro e della suddivisione di alcune arterie cerebrali, più precisamente di quel circolo anastomotico "ad anello" che unisce alla base praticamente tutte le arterie che si diramano al cervello e che va sotto il nome di "circolo di Willis" (da colui che lo descrisse nel 1664, nell'opera "Cerebri anatome"). Queste anomalie sono l'origine di progressive alterazioni circolatorie circoscritte del tutto asintomatiche (turbolenze) che causano nel tempo l'erosione e lo sfiancamento di alcuni tratti della lamella elastica delle arterie.Questa è la base patogenetica primaria; tuttavia vengono riconosciute delle cause secondarie e scatenanti tra cui, la più importante, l'ipertensione arteriosa o attività fisiche che implicano un brusco aumento della pressione arteriosa.
Sono affezioni frequenti e quale età è più colpita?
La gravità della malattia e la delicatezza della terapia fanno emotivamente sembrare tali affezioni molto frequenti. In realtà gli aneurismi cerebrali incidono mediamente in 10 casi per 100.000 abitanti. Si manifestano molto raramente nella prima decade di vita e divengono sintomatici con l'avanzare dell'età: più della metà si manifesta tra i 40 e i 60 anni. Le donne sono colpite più frequentemente degli uomini.
Quali sintomi provocano?
L'aneurisma, nella maggior parte dei casi, è una malformazione di piccolo volume a sviluppo lento o nullo e senza alcuna manifestazione clinica. I sintomi quindi sono associati alla sua rottura che generalmente avviene in modo improvviso e senza sintomi premonitori. I sintomi vanno dalla cefalea ai disturbi dello stato di coscienza, ai deficit neurologici sino alla morte in un terzo dei casi. La cefalea è il sintomo più comune e insorge nell'85-97% dei casi: è improvvisa e molto violenta, ben diversa pertanto dalle comuni e diffuse cefalee da altre cause.Nei casi in cui l'aneurisma è adiacente ad alcuni nervi cranici oppure è di notevoli dimensioni (aneurismi "giganti" oltre i 2,5 cm di diametro) possono manifestarsi dei sintomi specifici da compressione. Più frequentemente è interessato uno dei nervi cranici della motilità oculare per cui il paziente ha una diplopia (vede doppio).
Cosa comporta la rottura di un aneurisma?
La rottura di un aneurisma determina sempre un particolare tipo di emorragia che si definisce "subaracnoidea", nel frammezzo di quel foglietto meningeo molto sottile che ricopre la superficie del cervello e penetra come una ragnatela (dal greco "aracnoidè" = tela di ragno) accompagnando i vasi nei profondi anfratti e lacune cerebrali ("solchi" e "cisterne"). È pertanto un'emorragia generalmente diffusa, che interessa la superficie del cervello, anche se può avere delle localizzazioni specifiche. Meno frequentemente si ha un sanguinamento intracerebrale con conseguente ematoma.
L'emorragia da rottura di un aneurisma può essere definita un "ictus"?
Ictus deriva dal latino e significa colpo e quindi in termini traslati "evento improvviso". Anche l'emorragia subaracnoidea, come un infarto cardiaco del resto, può essere definita un evento ictale. Tuttavia per una abituale accezione comune, l'ictus cerebrale è una patologia diversa, dovuta a quegli eventi molto più frequenti di insufficienza circolatoria cerebrale (ischemie cerebrali) o alla rottura di piccoli capillari arteriosi cerebrali (emorragie cerebrali) ed è pertanto da tenere distinta dall'emorragia da rottura di un aneurisma.
Quali sono gli effetti dell'emorragia subaracnoidea?
A parte gli intuibili effetti di compressione locale in quei casi di ematoma intracerebrale, la diffusione spesso estesa e diramata dell'emorragia subaracnoidea esercita un'azione negativa più dal punto di vista chimico che meccanico con gravissimi quadri (coma, morte) anche in presenza di uno stravaso di sangue relativamente modesto. Si descrive, infatti, un'azione tossica da parte di alcune sostanze liberate dalla rottura dei globuli rossi direttamente sulle cellule cerebrali (edema e/o necrosi della cellula) e sugli stessi vasi arteriosi che possono restringersi abnormemente ed impedire l'afflusso di sangue procurando un'ischemia spesso irreversibile ("vasospasmo"). Questa azione tossica può presentarsi dopo qualche giorno dall'evento emorragico e può interessare un paziente anche in ottime condizioni cliniche.
Vasospasmo all'angiografia.
Risoluzione del vasospasmo.
L'aneurisma può essere un reperto occasionale?
Gli aneurismi cerebrali possono essere dei reperti occasionali nel corso di indagini diagnostiche eseguite per altri motivi. Sono questi i casi degli "aneurismi non rotti" la cui prognosi è legata ad un più favorevole trattamento in quanto il cervello non è stato interessato dall'episodio emorragico e dalle sue eventuali conseguenze.
Un emorragia subaracnoidea è dovuta sempre alla rottura di un aneurisma?
Non sempre. In una percentuale media del 10% circa dei casi in cui si sospetta per la sintomatologia un'emorragia subaracnoidea, l'accertamento diagnostico specifico, l'angiografia cerebrale, può risultare negativo. Si tratta dell'emorragia subaracnoidea definita "sine materia" e la prognosi è molto buona. Solo una piccolissima percentuale di questi casi tuttavia risulta positiva per aneurisma dopo un secondo controllo angiografico.
Quali indagini vengono eseguite per la loro diagnosi?
Prima di ogni indagine è estremamente importante la tempestiva interpretazione delle peculiari caratteristiche della cefalea e l'invio precoce in strutture sanitarie attrezzate.Il primo esame, da eseguirsi d'urgenza, è la Tomografia Computerizzata encefalica. Se questo non dovesse mostrare l'emorragia e la sintomatologia clinica è caratteristica, bisogna eseguire una puntura lombare che è in grado di evidenziare l'eventuale presenza di sangue nel liquor.La Tomografia Computerizzata encefalica è importante per esprimere la quantità di sangue negli spazi cerebrali (solchi e cisterne) ed avere una previsione prognostica relativa: una maggior quantità globale di sangue può essere indice di una maggiore probabilità di effetti tossici (vasospasmo).La diagnosi definitiva di aneurisma cerebrale tuttavia è affidata all'angiografia encefalica che si esegue ponendo un lungo catetere nell'arteria della coscia, all'inguine, (l'arteria femorale) portandolo fino alle arterie del collo (carotide e vertebrale) visualizzando tutti i vasi dell'encefalo. Così si può avere la conferma della presenza dell'aneurisma e la sua sede.Anche la Risonanza Magnetica e, oggi, le più recenti Tomografie Computerizzate (angio-TC) sono in grado di visualizzare le malformazioni vascolari in modo da poter evitare, in molti casi, l'angiografia diretta.
Vi sono cure mediche?
La terapia medica iniziale, che deve essere la più tempestiva possibile non è specifica per il trattamento degli aneurismi, ma limita o previene quegli effetti tossici legati all'emorragia subaracnoidea: i più importanti sono gli antiedemigeni cerebrali (diuretici come il "mannitolo" e cortisonici ad alte dosi), i sedativi ed i farmaci calcio-antagonisti. Importante è il trattamento dell'insufficienza respiratoria nei pazienti comatosi: questo deve essere eseguito in precedenza a qualsiasi altro provvedimento, anche diagnostico. Un ulteriore abbassamento dell'apporto di ossigeno comporta un ulteriore danno ad un cervello che ha già subito un'emorragia.
Qual è la terapia degli aneurismi?
La terapia specifica è quella chirurgica. Essa consiste nell'esclusione della sacca aneurismatica dalla circolazione arteriosa, impedendone così il risanguinamento.
Vi sono metodiche di trattamento non chirurgiche?
Alcuni decenni fa' prima dell'avvento delle tecniche microchirurgiche, il trattamento chirurgico degli aneurismi cerebrali era caratterizzato da tassi di mortalità molto elevati.
Duplice aneurisma: da un lato esclusione con clip, dall'altra con spirali.
Oggi la tecnica microchirurgica riesce ad avere degli eccellenti risultati e praticamente sia la morbilità che la mortalità sono legate alle conseguenze dell'emorragia e non al provvedimento chirurgico. Quanto, comunque, questo rimane ancor sempre una chirurgia delicata che andrebbe eseguita da chirurghi dedicati.Negli ultimi anni si è sviluppata una tecnica endovascolare, di chiusura della sacca dall'interno con dei microcateteri. Con la sua diffusione si stanno capendo meglio le indicazioni migliori e sembra porsi oggi come una metodica complementare a quella chirurgica.
In che cosa consiste l'intervento chirurgico?
L'intervento chirurgico comporta una tricotomia limitata, generalmente anteriore appena dietro l'attaccatura dei capelli, destra o sinistra sopra la fronte oppure dietro l'orecchio per alcune forme di aneurisma posteriore ed, infine, una tricotomia totale in caso di aneurismi multipli. L'incisione cutanea è limitata ed invisibile dopo la nuova crescita dei capelli.Lo sportello osseo (opercolo) è di pochi cm di diametro e il raggiungimento dell'aneurisma avviene attraverso le fessure naturali del cervello ("solchi" e "scissure").
Varie fasi chirurgiche di chiusura della sacca aneurismatica.
Per chiudere l'aneurisma si usano una o più clips metalliche (sofisticate mollette in titanio) che vengono poste a livello del "collo" dell'aneurisma, chiudendolo, ma lasciando libere le arterie normali della circolazione cerebrale.
Aneurisma cerebrale.
Esclusione dell'aneurisma con clips.
Quali rischi ho se non mi opero?
Per quanto il rischio di una rottura dell'aneurisma non sia statisticamente alto (4% all'anno), l'attuale tecnica chirurgica ha fatto sì che in presenza di un aneurisma cerebrale si pone l'indicazione chirurgica. È ovvio che andranno valutate le condizioni generali e l'età del paziente. Il limite d'età più frequente è di 75 anni.
Quali rischi ho se mi opero?
L'intervento chirurgico ha di per sé rischi nettamente inferiori all'evoluzione naturale che prevede una probabilità di risanguinamento del 15-20% entro due settimane e del 50% entro sei mesi con una media del 3% per anno. È pertanto la terapia di scelta. La mortalità legata all'intervento chirurgico è globalmente del 10 % comprese tutte le categorie di pazienti, mentre scende a 0% negli aneurismi non rotti e a poco più dell'1% nei casi con emorragia subaracnoidea senza iniziali segni neurologici. La possibilità di avere una paresi transitoria o definitiva è generalmente legata all'insorgenza precoce o tardiva (anche qualche giorno dopo l'intervento) al vasospasmo dovuto agli effetti tossici dell'emorragia e secondariamente alla stimolazione meccanica delle arterie.
Quale vita dopo l'emorragia e l'intervento chirurgico?
Nel paziente possono esitare le eventuali conseguenze dell'emorragia. Se il soggetto ha superato bene l'emorragia e quindi anche l'intervento, può riprendere una vita normale.
L'emorragia subaracnoidea
Strategie di gestione
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mercoledì 16 maggio 2007
mucopolisaccaridosi
Mucopolisaccaridosi e malattie lisosomiali affini (a cura dell'AIMPS*)
Presentiamo le mucopolisaccaridosi e le malattie lisosomiali affini ad esse, rare e gravi patologie genetiche del metabolismo che si dividono in numerose forme
Le mucopolisaccaridosi sono rare e gravi malattie genetiche del metabolismo che si distinguono nelle seguenti forme:- MPS I (detta anche sindrome di Hurler-Scheie)- MPS II (sindrome di Hunter)- MPS III (sindrome di Sanfilippo, nelle varianti A, B, C e D)- MPS IV (sindrome di Morquio, nelle varianti A e B)- MPS V: riclassificata come MPS I (sindrome di Scheie)- MPS VI (sindrome di Maroteaux-Lamy)- MPS VII (sindrome di Sly)- MPS VIII: riclassificata come MPS I (sindrome di Hurler-Scheie)- MPS IX (deficit di ialuronidasi)Delle malattie lisosomiali affini alle MPS si conoscono poi:- Aspartilglicosaminuria- Fucosidosi- Gangliosidosi- GM1 (sindrome di Landing)- GM2 (sindrome di Tay Sachs o Sandhoff)- Malattia di Fabry- Mannosidosi- Mucolipidosi II (I cell)- Mucolipidosi III (polidistrofia pseudo Hurler)- Mucolipidosi IV- SialidosiCause e conseguenzeNel corpo umano c’è un continuo processo di ricambio delle sostanze necessarie per le varie funzioni metaboliche. Tale processo, molto spesso, è facilitato dalla presenza di enzimi, molecole altamente specializzate nel riconoscere una serie di sostanze particolari (substrati).Se viene a mancare un enzima, il processo si altera e di conseguenza si ha l'accumulo di una particolare sostanza: i lisosomi. Questo fenomeno si osserva nei bambini colpiti da mucopolisaccaridosi.Nella fattispecie i mucopolisaccaridi sono grosse molecole che svolgono importanti funzioni nel tessuto connettivo; se nella loro via metabolica viene a mancare un enzima, essi si accumulano nelle cellule, nei tessuti e negli organi, creando uno stato patologico, le mucopolisaccaridosi appunto.I bambini che nascono con queste malattie subiscono così gravi danni, che peggiorano col passare del tempo, a causa del progressivo danneggiamento delle cellule.TrasmissioneLe mucopolisaccaridosi sono malattie ereditarie e vengono trasmesse, a loro insaputa, da genitori portatori sani.Tranne che per la MPS II (sindrome di Hunter), in cui è portatrice la madre (come avviene per l’emofilia), nelle altre forme sono portatori sia i maschi che le femmine.Se entrambi i genitori sono portatori di questo carattere, c’è una possibilità su quattro per ogni gravidanza (il 25% di probabilità) che il bambino sia affetto da questa malattia (il 50% di probabilità nella MPS II).I genitori di un bambino malato, in una successiva gravidanza, possono chiedere un esame prenatale per sapere se il feto è affetto da mucopolisaccaridosi.Evoluzione della malattiaLa vera e propria tragedia dei bambini affetti da mucopolisaccaridosi è che la loro vita va letteralmente "a ritroso". Alla nascita sembrano normali, poi la malattia si manifesta con il passare del tempo e, in certi casi, solo tardivamente.Le conseguenze variano da una forma all’altra: alcuni pazienti possono essere colpiti lievemente, ma la maggior parte soffre di gravi handicap.Spesso la crescita è limitata e vi possono essere ritardi sia psichici che fisici, in costante progressione.In alcune forme vengono persi alcuni apprendimenti: bambini che hanno imparato a parlare e a camminare, ad essere autonomi in certe funzioni, arrivano a non parlare più, si irrigidiscono nelle articolazioni, diventano incontinenti.Alcuni soffrono di disturbi visivi, respiratori, cardiaci, digestivi, motori.Cure e terapieAl momento, purtroppo, non c’è ancora una cura risolutiva delle mucopolisaccaridosi. Si è visto qualche risultato su alcuni casi e in alcune forme con il trapianto di midollo osseo che tuttavia non può essere definito un rimedio definitivo.Si iniziano inoltre a vedere i risultati della ricerca con la terapia di sostituzione enzimatica o ERT (oggi per l'MPS I, domani per l'MPS VI, dopodomani per l'MPS II, in futuro per la MPS IV e la MPS III).Si intravede infine qualche spiraglio nella ricerca con la terapia genica (MPS III). Resta in ogni caso importante il fatto che i pazienti vengano aiutati con terapie atte ad intervenire sulle manifestazioni della malattia. Il trattamento in definitiva si basa su un’assidua assistenza e intensità di controlli (soprattutto in certe forme e in certi periodi), da parte di presidi ospedalieri.Purtroppo si trovano spesso centri inadeguati, perché non provvisti di sufficienti conoscenze per affrontare i problemi che la malattia comporta, come pure non si trova chi può insegnare alle famiglie a continuare a domicilio terapie che sono quotidiane e che talvolta necessitano di apparecchiature sofisticate.Questo spesso costringe le famiglie stesse a ricorrere agli ospedali anche laddove si potrebbero evitare ricoveri ed attuare terapie domiciliari con un buon supporto del medico di base e di qualche operatore dei servizi di base.Vi è in Italia un forte difetto di conoscenza della popolazione in generale, ma anche nell’ambito degli operatori sanitari, psicopedagogici e sociali, sulla malattia, sulle modalità e sui centri di diagnosi, sulle possibilità di prevenzione e di cura sintomatica dei malati. Vi sono soprattutto problemi per l’inserimento scolastico dei bambini che hanno ritardo psichico (spesso si consiglia di ricorrere ad istituti per l’handicap) e, nelle forme in cui i pazienti hanno normali facoltà intellettive e disturbi prevalentemente fisici, vi sono problemi per l’inserimento nel mondo del lavoro.
Presentiamo le mucopolisaccaridosi e le malattie lisosomiali affini ad esse, rare e gravi patologie genetiche del metabolismo che si dividono in numerose forme
Le mucopolisaccaridosi sono rare e gravi malattie genetiche del metabolismo che si distinguono nelle seguenti forme:- MPS I (detta anche sindrome di Hurler-Scheie)- MPS II (sindrome di Hunter)- MPS III (sindrome di Sanfilippo, nelle varianti A, B, C e D)- MPS IV (sindrome di Morquio, nelle varianti A e B)- MPS V: riclassificata come MPS I (sindrome di Scheie)- MPS VI (sindrome di Maroteaux-Lamy)- MPS VII (sindrome di Sly)- MPS VIII: riclassificata come MPS I (sindrome di Hurler-Scheie)- MPS IX (deficit di ialuronidasi)Delle malattie lisosomiali affini alle MPS si conoscono poi:- Aspartilglicosaminuria- Fucosidosi- Gangliosidosi- GM1 (sindrome di Landing)- GM2 (sindrome di Tay Sachs o Sandhoff)- Malattia di Fabry- Mannosidosi- Mucolipidosi II (I cell)- Mucolipidosi III (polidistrofia pseudo Hurler)- Mucolipidosi IV- SialidosiCause e conseguenzeNel corpo umano c’è un continuo processo di ricambio delle sostanze necessarie per le varie funzioni metaboliche. Tale processo, molto spesso, è facilitato dalla presenza di enzimi, molecole altamente specializzate nel riconoscere una serie di sostanze particolari (substrati).Se viene a mancare un enzima, il processo si altera e di conseguenza si ha l'accumulo di una particolare sostanza: i lisosomi. Questo fenomeno si osserva nei bambini colpiti da mucopolisaccaridosi.Nella fattispecie i mucopolisaccaridi sono grosse molecole che svolgono importanti funzioni nel tessuto connettivo; se nella loro via metabolica viene a mancare un enzima, essi si accumulano nelle cellule, nei tessuti e negli organi, creando uno stato patologico, le mucopolisaccaridosi appunto.I bambini che nascono con queste malattie subiscono così gravi danni, che peggiorano col passare del tempo, a causa del progressivo danneggiamento delle cellule.TrasmissioneLe mucopolisaccaridosi sono malattie ereditarie e vengono trasmesse, a loro insaputa, da genitori portatori sani.Tranne che per la MPS II (sindrome di Hunter), in cui è portatrice la madre (come avviene per l’emofilia), nelle altre forme sono portatori sia i maschi che le femmine.Se entrambi i genitori sono portatori di questo carattere, c’è una possibilità su quattro per ogni gravidanza (il 25% di probabilità) che il bambino sia affetto da questa malattia (il 50% di probabilità nella MPS II).I genitori di un bambino malato, in una successiva gravidanza, possono chiedere un esame prenatale per sapere se il feto è affetto da mucopolisaccaridosi.Evoluzione della malattiaLa vera e propria tragedia dei bambini affetti da mucopolisaccaridosi è che la loro vita va letteralmente "a ritroso". Alla nascita sembrano normali, poi la malattia si manifesta con il passare del tempo e, in certi casi, solo tardivamente.Le conseguenze variano da una forma all’altra: alcuni pazienti possono essere colpiti lievemente, ma la maggior parte soffre di gravi handicap.Spesso la crescita è limitata e vi possono essere ritardi sia psichici che fisici, in costante progressione.In alcune forme vengono persi alcuni apprendimenti: bambini che hanno imparato a parlare e a camminare, ad essere autonomi in certe funzioni, arrivano a non parlare più, si irrigidiscono nelle articolazioni, diventano incontinenti.Alcuni soffrono di disturbi visivi, respiratori, cardiaci, digestivi, motori.Cure e terapieAl momento, purtroppo, non c’è ancora una cura risolutiva delle mucopolisaccaridosi. 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What color palettes are the most successful?
If you want the biggest revenue impact for the smallest effort, we recommend optimizing your color palettes. Choosing the right palettes can mean the difference between ads your users will notice -- and click -- and ads they'll skip right over.
We've outlined a few strategies below that are designed to decrease ad blindness, the tendency for users to ignore anything that's separate from the main content of your site. By making these changes, you'll be making your ads more visible to users. The goal isn't to confuse users into thinking ads are content, but to get users to see and read the ads so they can click on those that interest them.
The color strategy you should use on your site varies depending on the ad placement and the color of the background where the ads are placed. Review the table below for a quick reference about which strategies we suggest will work well on your site.
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Ads adjacent to content
Light background behind ads
Blend
Blend or complement
Dark background behind ads
Blend, complement, or contrast
Contrast or complement
Let's briefly define the three techniques you can use to design color palettes that will be successful for your site:
To blend, make the background and borders of your ads the same color as the background of your page where the ad is placed. If your site has a white background and you don't want to spend a lot of time choosing ad colors, we recommend using our pre-designed Open Air palette.
To complement, use colors that already exist on your site, but don't match the background and borders exactly where the ads are placed.
To contrast, choose colors that stand out against the background of your site. Contrasting is recommended only for sites with dark background, so we suggest using a palette with white background, white borders, and blue titles.
Blend
Complement
Contrast
For most color techniques, we recommend using colors for your ad text and links that already exist on your site. For example, if the links on your site are all green and your text is black, use green links and black text in your ads as well. Since most users are accustomed to seeing blue links, you might also try using blue.
In general, use common sense when choosing your color palettes. If your site's main colors are pastels, don't design ads that are all primary colors. Users won't click on ads that are visually offensive.
Even if your ads are designed perfectly, the techniques above might not work for a couple reasons:
Does your site have mainly repeat visitors?If your visitors come back day after day, they'll likely become blinded to the position of the ads over time, regardless of the ad colors. Try rotating colors or occasionally switching the location of your ads on the page.
Does your site have a lot of ads and busy content?If your site is filled with ads or packed with loads of competing content, chances are that you'll need to use more visually arresting colors to make your ads catch a user's eye. If the techniques above aren't getting results for you, try using more prominent palettes
Tip for making your ads visible: open your page and give it a quick glance, putting yourself in the mindset of a regular user. Do the ads draw your attention, without being garish? Would you be likely to notice and read them, or do your eyes glide right past them? Try to find a balance between ads that overwhelm your content and ads that your users won't even see. Imagining you're a user, look at the examples below. Would you notice the ads in these implementations?
Tip for testing color palettes: add variety and freshness to your ads by rotating between several color palettes. All you need to do is choose the Use multiple palettes option when generating your ad code during the Choose Ad Format and Colors step in the ad code setup, then hold down the Control or Command key and select up to four color palettes.
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carotide interna
Carotide interna
Da Wikipedia, l'enciclopedia libera.
Vai a: Navigazione, cerca
L'arteria carotide interna è un grosso ed importante vaso che porta i suoi rami all'encefalo, alla pia madre, all'aracnoide, all'occhio e agli organi della cavità orbitaria.
[modifica] Anatomia
L'arteria carotide interna origina dall'arteria carotide comune subito sopra il margine superiore della cartilagine tiroidea della laringe, quando la carotide comune si divide a fionda nella carotide esterna e nella carotide interna. Alla sua origine possiede un diametro di 8 mm, diametro maggiore di quello della carotide esterna. In genere la carotide interna di sinistra è più grande di quella di destra. Risale verso l'alto costeggiando la parete laterale della faringe e quindi penetra nel canale carotideo, scavato nella rocca petrosa dell'osso temporale. Percorso tutto il canale carotideo si viene a trovare all'interno della cavità cranica dove piega in avanti e penetra nel seno cavernoso. All'interno di questo caratteristico seno venoso essa non è bagnata direttamente dal sangue ivi contenuto ma è ricoperta esternamente dell'endotelio del seno stesso. All'interno del seno cavernoso essa è accompagnata da varie strutture nervose che sono:
nervo oculomotore (III).
nervo trocleare (IV).
branca oftalmica del nervo trigemino (V).
nervo abducente (VI).
Nella regione del collo dall'arteria non si stacca nessun ramo laterale, nel canale carotideo dà origine ad un piccolo rametto arterioso, il ramo carotico-timpanico, che irrora la mucosa della cassa del timpano. Appena fuoriuscita dal seno cavernoso stacca il suo secondo ramo laterale che è rappresentato dall'arteria oftalmica destinata al globo oculare. Alla fine essa si piega medialmente al davanti dei processi clinoidei e si divide nei suoi quattro rami terminali, che sono:
arteria cerebrale anteriore.
arteria cerebrale media.
arteria corioidea anteriore.
arteria comunicante posteriore.
Da Wikipedia, l'enciclopedia libera.
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L'arteria carotide interna è un grosso ed importante vaso che porta i suoi rami all'encefalo, alla pia madre, all'aracnoide, all'occhio e agli organi della cavità orbitaria.
[modifica] Anatomia
L'arteria carotide interna origina dall'arteria carotide comune subito sopra il margine superiore della cartilagine tiroidea della laringe, quando la carotide comune si divide a fionda nella carotide esterna e nella carotide interna. Alla sua origine possiede un diametro di 8 mm, diametro maggiore di quello della carotide esterna. In genere la carotide interna di sinistra è più grande di quella di destra. Risale verso l'alto costeggiando la parete laterale della faringe e quindi penetra nel canale carotideo, scavato nella rocca petrosa dell'osso temporale. Percorso tutto il canale carotideo si viene a trovare all'interno della cavità cranica dove piega in avanti e penetra nel seno cavernoso. All'interno di questo caratteristico seno venoso essa non è bagnata direttamente dal sangue ivi contenuto ma è ricoperta esternamente dell'endotelio del seno stesso. All'interno del seno cavernoso essa è accompagnata da varie strutture nervose che sono:
nervo oculomotore (III).
nervo trocleare (IV).
branca oftalmica del nervo trigemino (V).
nervo abducente (VI).
Nella regione del collo dall'arteria non si stacca nessun ramo laterale, nel canale carotideo dà origine ad un piccolo rametto arterioso, il ramo carotico-timpanico, che irrora la mucosa della cassa del timpano. Appena fuoriuscita dal seno cavernoso stacca il suo secondo ramo laterale che è rappresentato dall'arteria oftalmica destinata al globo oculare. Alla fine essa si piega medialmente al davanti dei processi clinoidei e si divide nei suoi quattro rami terminali, che sono:
arteria cerebrale anteriore.
arteria cerebrale media.
arteria corioidea anteriore.
arteria comunicante posteriore.
giovedì 3 maggio 2007
pubalgia da calciatore
La pubalgia del calciatore
di L. Melli - Copyright by THEA 2005
La pubalgia è uno degli infortuni da sovraccarico che colpiscono spesso i calciatori; il termine tecnico più corretto sarebbe quello di sindrome retto-adduttoria in quanto sono funzionalmente coinvolti gli addominali (retto, obliqui, trasversi), gli adduttori (brevi, lunghi e grandi adduttori) e/o altri muscoli del bacino (pettineo e piramidale). La maggior facilità con la quale si infortunano i calciatori sembra sia dovuto alla tipologia di gioco, fatta di azioni esplosive (scatti, salti, cambi di direzione, ecc.) che provocano un'elevatissima sollecitazione delle strutture osteotendinee della regione pubica.
Come tutte le patologie da sovraccarico, la causa scatenante è l'allenarsi (o giocare) in condizioni di affaticamento;
tra le altre condizioni che ne possono facilitarne l'insorgenza è opportuno ricordare:
Scarso equilibrio tra i gruppi muscolari che si inseriscono nel pube (in particolar modo tra addominali ed adduttori).
Maggior debolezza dei muscoli adduttori rispetto agli altri muscoli della coscia e del bacino.
Iperlordosi e rigidità delle vertebre lombari.
Soprappeso.
Calzature inadatte e terreni troppo rigidi.
Altri dimorfismi degli arti inferiori.
È da tenere in considerazione che con il termine sindrome retto-adduttoria si intende un'insieme di problemi vari con, in comune, il dolore localizzato principalmente nella regione pubica.
La diagnosi e il trattamento sono discusse nell'articolo della pubalgia; vista la grande difficoltà nel trattamento (in particolar modo quando raggiungono stadi molto dolorosi),
la tempestività è l'elemento principale per una risoluzione veloce e rapida di una sindrome retto-adduttoria.
Altro fatto importante, per i soggetti facilmente soggetti a questo tipo di problemi, è la prevenzione; molte volte però i giocatori (ai fini della prevenzione) si limitano solamente a posture che permettono di allungare gli adduttori. Questo tipo di comportamento ha 2 difetti principali:
Queste posture sono esercizi di allungamento muscolare che, se fatti in maniera errata, possono condurre a tutti i problemi tipici dello stretching svolto in maniera scorretta.
Si limitano alla prevenzione di una sola delle possibili cause della pubalgia, cioè la limitazione della flessibilità degli adduttori.
Da questi punti è possibile comprendere come la prevenzione delle sindromi-retto adduttorie, per la maggior parte dei giocatori a livello dilettantistico, sia inesistente.
Strategie di prevenzione per le sindromi retto-adduttorie
In base alle conoscenze attuali è difficile stabilire una linea di prevenzione che possa essere efficace per tutti, viste le diverse cause che possono dare origine alla pubalgia.
Il giocatore deve essere l'attore principale della prevenzione di questo infortunio;
deve avere il coraggio e il buon senso di fermarsi nel momento in cui insorgono i primi fastidi cercando di limitarsi a quelle attività che non evochino dolore o fastidio.
Se il fastidio persiste è necessario rivolgersi a personale competente prima che la situazione diventi grave e vengano compromessi mesi di allenamento.
Altre linee guida che possono, in alcuni casi, aiutare nella prevenzione della pubalgia sono:
Effettuare periodicamente (almeno 2 volte alla settimana) un efficace potenziamento della muscolatura addominale; una volta alla settimana andrebbero potenziati anche gli ischio-crurali.
Svolgere un continuo programma di allungamento della base posteriore del tronco (la zona lombare) e degli ischio-crurali preferendo, per questi ultimi, il metodo Wharton.
Prestare particolare attenzione al riscaldamento prima di ogni seduta di allenamento e di ogni partita; questo, deve comprendere diverse andature (dopo almeno 8-10' di corsa lenta) come skip (corsa a ginocchia alte), corsa calciata dietro, adduzioni/abduzioni delle gambe, scivolamenti laterali, corsa laterale a gambe incrociate, galoppi laterali, ecc.
Esercizi di propriocettività con pedane instabili (possibilmente a base larga) e in posizioni diverse; questi migliorano la sensibilità e il reclutamento dei muscoli stabilizzatori, compresi quelli coinvolti nelle sindromi retto-adduttorie. Gli esercizi per la propriocettività inoltre possono essere efficaci anche per la prevenzione delle lesioni al legamento crociato anteriore e delle distorsioni alla caviglia.
Apprendere in maniera corretta le tecniche di stretching preferendo quello dinamico (non balistico); le posture andrebbero evitate (per i motivi prima esposti) prima dell'allenamento e in condizioni di affaticamento.
Strategie di prevenzione avanzate
Se le recidive sono frequenti, malgrado un corretto programma di prevenzione è consigliabile:
Rivolgersi ad un posturologo, verificare eventuali paramorfismi o dimorfismi ed attuare eventuali correzioni.
Attuare un programma di rafforzamento muscolare generale, con una particolare attenzione al potenziamento eccentrico degli adduttori. La funzionalità degli esercizi eccentrici è gia stata dimostrata per le tendinopatia al tendine d'Achille; l'utilità di questo metodo anche per la prevenzione della pubalgia nasce dal fatto che sembra che spesso la causa scatenante della pubalgia sia una distrazione muscolo-tendinea in prossimità dell'inserzione del pube. Queste esercitazioni eccentriche (affondi laterali, uso di elastici, ecc.) per gli adduttori (le cui modalità biomeccaniche sono ovviamente diverse da quelle della tendinopatia all'achilleo) devono comunque essere effettuate sotto la supervisione di personale esperto e qualificato.
di L. Melli - Copyright by THEA 2005
La pubalgia è uno degli infortuni da sovraccarico che colpiscono spesso i calciatori; il termine tecnico più corretto sarebbe quello di sindrome retto-adduttoria in quanto sono funzionalmente coinvolti gli addominali (retto, obliqui, trasversi), gli adduttori (brevi, lunghi e grandi adduttori) e/o altri muscoli del bacino (pettineo e piramidale). La maggior facilità con la quale si infortunano i calciatori sembra sia dovuto alla tipologia di gioco, fatta di azioni esplosive (scatti, salti, cambi di direzione, ecc.) che provocano un'elevatissima sollecitazione delle strutture osteotendinee della regione pubica.
Come tutte le patologie da sovraccarico, la causa scatenante è l'allenarsi (o giocare) in condizioni di affaticamento;
tra le altre condizioni che ne possono facilitarne l'insorgenza è opportuno ricordare:
Scarso equilibrio tra i gruppi muscolari che si inseriscono nel pube (in particolar modo tra addominali ed adduttori).
Maggior debolezza dei muscoli adduttori rispetto agli altri muscoli della coscia e del bacino.
Iperlordosi e rigidità delle vertebre lombari.
Soprappeso.
Calzature inadatte e terreni troppo rigidi.
Altri dimorfismi degli arti inferiori.
È da tenere in considerazione che con il termine sindrome retto-adduttoria si intende un'insieme di problemi vari con, in comune, il dolore localizzato principalmente nella regione pubica.
La diagnosi e il trattamento sono discusse nell'articolo della pubalgia; vista la grande difficoltà nel trattamento (in particolar modo quando raggiungono stadi molto dolorosi),
la tempestività è l'elemento principale per una risoluzione veloce e rapida di una sindrome retto-adduttoria.
Altro fatto importante, per i soggetti facilmente soggetti a questo tipo di problemi, è la prevenzione; molte volte però i giocatori (ai fini della prevenzione) si limitano solamente a posture che permettono di allungare gli adduttori. Questo tipo di comportamento ha 2 difetti principali:
Queste posture sono esercizi di allungamento muscolare che, se fatti in maniera errata, possono condurre a tutti i problemi tipici dello stretching svolto in maniera scorretta.
Si limitano alla prevenzione di una sola delle possibili cause della pubalgia, cioè la limitazione della flessibilità degli adduttori.
Da questi punti è possibile comprendere come la prevenzione delle sindromi-retto adduttorie, per la maggior parte dei giocatori a livello dilettantistico, sia inesistente.
Strategie di prevenzione per le sindromi retto-adduttorie
In base alle conoscenze attuali è difficile stabilire una linea di prevenzione che possa essere efficace per tutti, viste le diverse cause che possono dare origine alla pubalgia.
Il giocatore deve essere l'attore principale della prevenzione di questo infortunio;
deve avere il coraggio e il buon senso di fermarsi nel momento in cui insorgono i primi fastidi cercando di limitarsi a quelle attività che non evochino dolore o fastidio.
Se il fastidio persiste è necessario rivolgersi a personale competente prima che la situazione diventi grave e vengano compromessi mesi di allenamento.
Altre linee guida che possono, in alcuni casi, aiutare nella prevenzione della pubalgia sono:
Effettuare periodicamente (almeno 2 volte alla settimana) un efficace potenziamento della muscolatura addominale; una volta alla settimana andrebbero potenziati anche gli ischio-crurali.
Svolgere un continuo programma di allungamento della base posteriore del tronco (la zona lombare) e degli ischio-crurali preferendo, per questi ultimi, il metodo Wharton.
Prestare particolare attenzione al riscaldamento prima di ogni seduta di allenamento e di ogni partita; questo, deve comprendere diverse andature (dopo almeno 8-10' di corsa lenta) come skip (corsa a ginocchia alte), corsa calciata dietro, adduzioni/abduzioni delle gambe, scivolamenti laterali, corsa laterale a gambe incrociate, galoppi laterali, ecc.
Esercizi di propriocettività con pedane instabili (possibilmente a base larga) e in posizioni diverse; questi migliorano la sensibilità e il reclutamento dei muscoli stabilizzatori, compresi quelli coinvolti nelle sindromi retto-adduttorie. Gli esercizi per la propriocettività inoltre possono essere efficaci anche per la prevenzione delle lesioni al legamento crociato anteriore e delle distorsioni alla caviglia.
Apprendere in maniera corretta le tecniche di stretching preferendo quello dinamico (non balistico); le posture andrebbero evitate (per i motivi prima esposti) prima dell'allenamento e in condizioni di affaticamento.
Strategie di prevenzione avanzate
Se le recidive sono frequenti, malgrado un corretto programma di prevenzione è consigliabile:
Rivolgersi ad un posturologo, verificare eventuali paramorfismi o dimorfismi ed attuare eventuali correzioni.
Attuare un programma di rafforzamento muscolare generale, con una particolare attenzione al potenziamento eccentrico degli adduttori. La funzionalità degli esercizi eccentrici è gia stata dimostrata per le tendinopatia al tendine d'Achille; l'utilità di questo metodo anche per la prevenzione della pubalgia nasce dal fatto che sembra che spesso la causa scatenante della pubalgia sia una distrazione muscolo-tendinea in prossimità dell'inserzione del pube. Queste esercitazioni eccentriche (affondi laterali, uso di elastici, ecc.) per gli adduttori (le cui modalità biomeccaniche sono ovviamente diverse da quelle della tendinopatia all'achilleo) devono comunque essere effettuate sotto la supervisione di personale esperto e qualificato.
distorsione alla caviglia
La distorsione della caviglia
"Una caviglia lesa e instabile rappresenta il presupposto di distorsioni recidivanti, si comprende quindi l'importanza di una buona rieducazione dopo un episodio distorsivo"
In Italia si stimano circa 50000 traumi distorsivi alla caviglia al giorno, questo significa che è uno dei traumi più comuni negli sport e nelle attività ricreative. La distorsione alla caviglia è il più frequente trauma muscolo-scheletrico dell’arto inferiore. Gli sport dove questo trauma è più frequente, in ordine crescente, sono: pallavolo (56%), basket (55%), calcio (51%)e la corsa di resistenza (40%).Nella distorsione alla caviglia quasi sempre rimane un dolore residuo abbastanza significativo che comporta una limitazione funzionale. Anche dopo che il trauma è stato curato si ha una percentuale variabile di pazienti, che va dal 10% al 30%, che lamentano una sintomatologia cronica caratterizzata da sinoviti, tendinopatie, rigidità, aumento di volume, dolore ed insufficienza muscolare, associati o meno ad instabilità del collo del piede con difficoltà a deambulare su terreni irregolari o episodi distorsivi recidivanti, a prescindere dal trattamento dell’episodio acuto. Questo avviene perché il danno del trauma distorsivo non avviene solo a carico del tessuto legamentoso, ma anche del tessuto nervoso e muscolo-tendineo, intorno al complesso della caviglia.Il tempo necessario per il recupero funzionale completo, qualunque sia il trattamento riservato al paziente (chirurgico o conservativo), varia dalle 3 alle 5 settimane; il tempo necessario prima di tornare al lavoro varia dalle 4 alle 7 settimane; e prima che il paziente possa ritornare alla pratica sportiva occorrono 10 settimane. I tempi di recupero, di solito, negli sportivi professionisti sono più corti perché il tempo riservato alla riabilitazione è molto maggiore rispetto ad esempio ad uno sportivo amatoriale.
I traumi distorsivi possono essere acuti (in seguito ad urti, contrasti, scontri o improvvisi cambi di direzione) o cronici (dopo carichi notevoli e prolungati). L'evento traumatico può portare, nella caviglia di un atleta, ad una patologia articolare, suddivisa in due quadri:
quello della lassità , con lesioni capsulari, distensioni e lacerazioni del comparto legamentoso laterale e mediale della tibiotarsica e della sottoastragalica, che determinano una escursione articolare oltre i limiti fisiologici;
quello dell’ instabilità , che l'atleta avverte come un segno di cedimento articolare durante il gesto sportivo ed anatomopatologicamente obiettivabile in una rottura più o meno totale dei legamenti.
5000 traumi distorsivi ogni giorno in Italia
20% traumi sportivi
disfunzione cronica nel 30% dei casi e frequenti recidive
costi sociali elevati
"Una caviglia lesa e instabile rappresenta il presupposto di distorsioni recidivanti, si comprende quindi l'importanza di una buona rieducazione dopo un episodio distorsivo"
La distorsione è la perdita momentanea ed incompleta dei rapporti articolari fra due capi ossei.
CLASSIFICAZIONE DELLE DISTORSIONI
Grado 0: tilt astragalico inferiore a 8°, non rotture legamentose;
Grado 1: tilt astragalico (10°-20°), rottura legamento peroneo- astragalico anteriore;
Grado 2: tilt astragalico (20°-30°), rottura legamento peroneo- astragalico anteriore e peroneo calcaneare;
Grado 3: tilt astragalico superiore a 30°, rottura di tre legamenti
SINTOMATOLOGIA DELLA DISTORSIONE
• Dolore vivo, localizzato a livello della zona anteriore del malleolo peroneale, che insorge durante la palpazione; • Tumefazione modesta o cospicua a livello periarticolare ed articolare, segno della rottura della piccola arteriola passante al di sopra del legamento peroneo-astragalico anteriore (segno di Robert-Jaspert); • Limitazione funzionale causata dal dolore che il paziente avverte durante i movimenti dell’articolazione; • Instabilità dell’ articolazione tibio-tarsica
IL TRATTAMENTO CONSERVATIVO
è diviso in 3 fasi : Acuta Sub-acuta Di Rieducazione Funzionale
FASE ACUTA
Il protocollo più accreditato per le lesioni acute è il P.R.I.C.E. Protection Rest Ice Compression Elevation In fase acuta gli obiettivi sono: a) L’immobilizzazione; b) Diminuzione degli “irritanti chimici” che causano dolore e favoriscono la “stasi tissutale” (ovvero l’edema); c) La prevenzione di ulteriori sollecitazioni meccaniche della struttura lesa.
FASE SUBACUTA
In fase sub-acuta lo scopo del trattamento è quello di sottoporre il tessuto leso ad una serie di sollecitazioni meccaniche, utili per promuovere l’orientamento fisiologico delle fibre collagene. Gli obbiettivi in questa fase sono: a) L’eliminazione del dolore; b) Il recupero della particolarità; c) L’eliminazione dello spasmo muscolare; d) L’eliminazione dell’edema; e) Il recupero della forza muscolare. Per raggiungere questi obbiettivi si utilizzano massaggi, terapie fisiche, tecniche di mobilizzazione e la cinesiterapia.
FASE DI RIEDUCAZIONE FUNZIONALE
Nella fase di rieducazione funzionale si mira al: a) Recupero della propriocettività; b) Recupero della forza; c) Prevenzione delle recidive.
IL BENDAGGIO FUNZIONALE previene l'insorgere di ricadute o recidive quando si riprende l'attività motoria; evita i danni di una prolungata immobilizzazione o inattività funzionale; riduce i tempi di recupero
Qualora si riporti una distorsione alla caviglia in luoghi avversi, lontano da possibili soccorsi, è bene non togliersi la scarpa per esaminare la lesione. Il conseguente dolore associato a gonfiore potrebbe infatti ostacolare il reinserimento del piede nella scarpa.
LA RIEDUCAZIONE PROPRIOCETTIVA
Con il termine di rieducazione propriocettiva , come appare chiaro dal termine stesso, si intendono tutte le metodiche e gli esercizi mirati a stimolare e rieducare la sensibilità propriocettiva, quella, cioè, che ci permette di conoscere anche ad occhi chiusi la posizione del nostro corpo e dei suoi segmenti nello spazio.
Particolari recettori raccolgono i segnali di origine periferica, trasmettendoli al sistema nervoso centrale che elabora le informazioni ricevute e le integra con altre afferenze (visive, labirintiche), per organizzare adeguate risposte motorie.
La funzione dei propriocettori è quindi fondamentale per regolare il tono muscolare, la postura e la corretta esecuzione dei movimenti.
GLI ESERCIZI PROPRIOCETTIVI
Gli esercizi propriocettivi sono quindi quelle attività che vanno a stimolare il sistema propriocettivo, con l'obbiettivo di allenarlo a fornire delle risposte rapide ed adeguate in situazioni destabilizzanti e potenzialmente pericolose, coscientizzando l'individuo nei confronti del proprio corpo. In particolare la rieducazione propriocettiva nel caso della caviglia deve proporsi come fine quello di far acquistare all’ articolazione tibio-tarsica una maggiore coordinazione nelle contrazioni muscolari e delle leve ossee, in relazione al movimento .
Inizialmente la rieducazione propriocettiva si effettua in scarico o in maniera passiva, per abituare il paziente a percepire le diverse caratteristiche del movimento indotto e coscientizzarlo riguardo alle sue possibilità di reazione motoria.
Successivamente , prima di eseguire gli esercizi propiocettivi in stazione eretta andremo a fare recuperare, se non ancora presente, un’equa distribuzione del carico. Successivamente si propongono esercizi su superfici instabili , come i piani circolari, le tavolette quadrate e le semisfere Il paziente deve imparare a mantenere l’equilibrio con semplici movimenti delle caviglie, inizialmente ad occhi aperti e con l’aiuto del terapista, successivamente senza aiuto e senza il controllo visivo. Il lavoro prosegue poi in monopodalica sia sull’arto leso sia su quello sano. In questa fase il terapista può aiutare il paziente, o destabilizzarlo con delle spinte quando ha raggiunto un buon controllo dell’equilibrio. Quando il paziente ha recuperato una buona deambulazione si procede con l’eseguire un percorso propriocettivo composto da cuscini che hanno una diversa consistenza e deformabilità, in modo da adattare il passo e stimolare i recettori propriocettivi durante la camminata su un terreno non omogeneo
RINFORZO MUSCOLARE
Nella riattivazione motoria, dopo un qualsiasi trauma, distorsivo o meno, ricopre un ruolo fondamentale il rinforzo muscolare , in quanto un buon trofismo dei muscoli riduce il rischio di lesioni recidivanti e permette al paziente di riprendere a pieno regime le attività che svolgeva prima dell’incidente. Nella rieducazione della caviglia dopo una distorsione dobbiamo prestare particolare attenzione ai movimenti che andremo a far compiere al paziente, in modo tale da non procedere subito con esercizi che possono recare danni al comparto che ha subito il trauma. Per questo motivo è meglio cominciare con esercizi molto leggeri, divisi in più serie con poche ripetizioni Lo strumento più utilizzato per il rinforzo muscolare è l’ elastico , in quanto permette di dosare il carico ed è molto versatile per questo tipo di esercizi. Gli stessi esercizi possono essere effettuati con l’ausilio di una palla di spugna . Quando il paziente è in grado di camminare senza evidenziare zoppia e senza accusare dolore nella zona interessata si può procedere con l’esecuzione di esercizi a carico completo. Possiamo dividere questi esercizi in due categorie. La prima è per il potenziamento dei muscoli della gamba, più precisamente per quelli della loggia posteriore. La seconda invece è mirata al potenziamento dei muscoli della coscia.
IL RECUPERO DEL GESTO
La fase successiva è quella del recupero del gesto atletico, che è mirata non solo a l recupero della meccanica del passo normale, ma al recupero ottimale per tornare a svolgere attività fisiche come prima dell'infortunio
LA RIABILITAZIONE IN ACQUA
La riabilitazione in acqua prevede l'esecuzione di esercizi, molte volte gli stessi che si eseguono in palestra, con il corpo parzialmente immerso nell’acqua
Questo tipo di riabilitazione sfrutta alcune leggi fisiche come:
Principio di Archimede
Reazione Viscosa
Anche la riabilitazione in acqua si divide in tre parti:
Rieducazione propiocettiva
Rinforzo Muscolare
Recupero del Gesto
La Rieducazione propiocettiva
si invita il paziente a camminare lungo la vasca mantenendo sotto il piede una tavoletta galleggiante in modo da creare una situazione di instabilità continua durante le varie fasi del passo.
Il Rinforzo Muscolare
esercizi con lo step , flesso-estensione delle gambe con sostegno di un galleggiante, nuoto a stile libero con le pinne in modo tale da aumentare la resistenza dell’acqua, camminate con attrezzi che aumentano la resistenza dell’acqua nello specifico del gesto e movimenti di adduzione, abduzione e flesso-estensione della gamba da stazione eretta.
Il Recupero del Gesto
andremo ad eseguire vari tipi di camminata , in avanti, all’indietro, laterale, corsa nelle tre direzioni, balzi , saltelli e tutte le altre situazioni a cui si può andare incontro durante il ritorno all’attività da parte del paziente. Tutti questi esercizi potranno subire variazioni come, ad esempio per il cammino, camminare in avanti prima esasperando la flessione del ginocchio andando quasi a toccarsi la zona addominale, oppure mantenendo le gambe rigide.
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Frattura della caviglia
Distorsione al ginocchio
"Una caviglia lesa e instabile rappresenta il presupposto di distorsioni recidivanti, si comprende quindi l'importanza di una buona rieducazione dopo un episodio distorsivo"
In Italia si stimano circa 50000 traumi distorsivi alla caviglia al giorno, questo significa che è uno dei traumi più comuni negli sport e nelle attività ricreative. La distorsione alla caviglia è il più frequente trauma muscolo-scheletrico dell’arto inferiore. Gli sport dove questo trauma è più frequente, in ordine crescente, sono: pallavolo (56%), basket (55%), calcio (51%)e la corsa di resistenza (40%).Nella distorsione alla caviglia quasi sempre rimane un dolore residuo abbastanza significativo che comporta una limitazione funzionale. Anche dopo che il trauma è stato curato si ha una percentuale variabile di pazienti, che va dal 10% al 30%, che lamentano una sintomatologia cronica caratterizzata da sinoviti, tendinopatie, rigidità, aumento di volume, dolore ed insufficienza muscolare, associati o meno ad instabilità del collo del piede con difficoltà a deambulare su terreni irregolari o episodi distorsivi recidivanti, a prescindere dal trattamento dell’episodio acuto. Questo avviene perché il danno del trauma distorsivo non avviene solo a carico del tessuto legamentoso, ma anche del tessuto nervoso e muscolo-tendineo, intorno al complesso della caviglia.Il tempo necessario per il recupero funzionale completo, qualunque sia il trattamento riservato al paziente (chirurgico o conservativo), varia dalle 3 alle 5 settimane; il tempo necessario prima di tornare al lavoro varia dalle 4 alle 7 settimane; e prima che il paziente possa ritornare alla pratica sportiva occorrono 10 settimane. I tempi di recupero, di solito, negli sportivi professionisti sono più corti perché il tempo riservato alla riabilitazione è molto maggiore rispetto ad esempio ad uno sportivo amatoriale.
I traumi distorsivi possono essere acuti (in seguito ad urti, contrasti, scontri o improvvisi cambi di direzione) o cronici (dopo carichi notevoli e prolungati). L'evento traumatico può portare, nella caviglia di un atleta, ad una patologia articolare, suddivisa in due quadri:
quello della lassità , con lesioni capsulari, distensioni e lacerazioni del comparto legamentoso laterale e mediale della tibiotarsica e della sottoastragalica, che determinano una escursione articolare oltre i limiti fisiologici;
quello dell’ instabilità , che l'atleta avverte come un segno di cedimento articolare durante il gesto sportivo ed anatomopatologicamente obiettivabile in una rottura più o meno totale dei legamenti.
5000 traumi distorsivi ogni giorno in Italia
20% traumi sportivi
disfunzione cronica nel 30% dei casi e frequenti recidive
costi sociali elevati
"Una caviglia lesa e instabile rappresenta il presupposto di distorsioni recidivanti, si comprende quindi l'importanza di una buona rieducazione dopo un episodio distorsivo"
La distorsione è la perdita momentanea ed incompleta dei rapporti articolari fra due capi ossei.
CLASSIFICAZIONE DELLE DISTORSIONI
Grado 0: tilt astragalico inferiore a 8°, non rotture legamentose;
Grado 1: tilt astragalico (10°-20°), rottura legamento peroneo- astragalico anteriore;
Grado 2: tilt astragalico (20°-30°), rottura legamento peroneo- astragalico anteriore e peroneo calcaneare;
Grado 3: tilt astragalico superiore a 30°, rottura di tre legamenti
SINTOMATOLOGIA DELLA DISTORSIONE
• Dolore vivo, localizzato a livello della zona anteriore del malleolo peroneale, che insorge durante la palpazione; • Tumefazione modesta o cospicua a livello periarticolare ed articolare, segno della rottura della piccola arteriola passante al di sopra del legamento peroneo-astragalico anteriore (segno di Robert-Jaspert); • Limitazione funzionale causata dal dolore che il paziente avverte durante i movimenti dell’articolazione; • Instabilità dell’ articolazione tibio-tarsica
IL TRATTAMENTO CONSERVATIVO
è diviso in 3 fasi : Acuta Sub-acuta Di Rieducazione Funzionale
FASE ACUTA
Il protocollo più accreditato per le lesioni acute è il P.R.I.C.E. Protection Rest Ice Compression Elevation In fase acuta gli obiettivi sono: a) L’immobilizzazione; b) Diminuzione degli “irritanti chimici” che causano dolore e favoriscono la “stasi tissutale” (ovvero l’edema); c) La prevenzione di ulteriori sollecitazioni meccaniche della struttura lesa.
FASE SUBACUTA
In fase sub-acuta lo scopo del trattamento è quello di sottoporre il tessuto leso ad una serie di sollecitazioni meccaniche, utili per promuovere l’orientamento fisiologico delle fibre collagene. Gli obbiettivi in questa fase sono: a) L’eliminazione del dolore; b) Il recupero della particolarità; c) L’eliminazione dello spasmo muscolare; d) L’eliminazione dell’edema; e) Il recupero della forza muscolare. Per raggiungere questi obbiettivi si utilizzano massaggi, terapie fisiche, tecniche di mobilizzazione e la cinesiterapia.
FASE DI RIEDUCAZIONE FUNZIONALE
Nella fase di rieducazione funzionale si mira al: a) Recupero della propriocettività; b) Recupero della forza; c) Prevenzione delle recidive.
IL BENDAGGIO FUNZIONALE previene l'insorgere di ricadute o recidive quando si riprende l'attività motoria; evita i danni di una prolungata immobilizzazione o inattività funzionale; riduce i tempi di recupero
Qualora si riporti una distorsione alla caviglia in luoghi avversi, lontano da possibili soccorsi, è bene non togliersi la scarpa per esaminare la lesione. Il conseguente dolore associato a gonfiore potrebbe infatti ostacolare il reinserimento del piede nella scarpa.
LA RIEDUCAZIONE PROPRIOCETTIVA
Con il termine di rieducazione propriocettiva , come appare chiaro dal termine stesso, si intendono tutte le metodiche e gli esercizi mirati a stimolare e rieducare la sensibilità propriocettiva, quella, cioè, che ci permette di conoscere anche ad occhi chiusi la posizione del nostro corpo e dei suoi segmenti nello spazio.
Particolari recettori raccolgono i segnali di origine periferica, trasmettendoli al sistema nervoso centrale che elabora le informazioni ricevute e le integra con altre afferenze (visive, labirintiche), per organizzare adeguate risposte motorie.
La funzione dei propriocettori è quindi fondamentale per regolare il tono muscolare, la postura e la corretta esecuzione dei movimenti.
GLI ESERCIZI PROPRIOCETTIVI
Gli esercizi propriocettivi sono quindi quelle attività che vanno a stimolare il sistema propriocettivo, con l'obbiettivo di allenarlo a fornire delle risposte rapide ed adeguate in situazioni destabilizzanti e potenzialmente pericolose, coscientizzando l'individuo nei confronti del proprio corpo. In particolare la rieducazione propriocettiva nel caso della caviglia deve proporsi come fine quello di far acquistare all’ articolazione tibio-tarsica una maggiore coordinazione nelle contrazioni muscolari e delle leve ossee, in relazione al movimento .
Inizialmente la rieducazione propriocettiva si effettua in scarico o in maniera passiva, per abituare il paziente a percepire le diverse caratteristiche del movimento indotto e coscientizzarlo riguardo alle sue possibilità di reazione motoria.
Successivamente , prima di eseguire gli esercizi propiocettivi in stazione eretta andremo a fare recuperare, se non ancora presente, un’equa distribuzione del carico. Successivamente si propongono esercizi su superfici instabili , come i piani circolari, le tavolette quadrate e le semisfere Il paziente deve imparare a mantenere l’equilibrio con semplici movimenti delle caviglie, inizialmente ad occhi aperti e con l’aiuto del terapista, successivamente senza aiuto e senza il controllo visivo. Il lavoro prosegue poi in monopodalica sia sull’arto leso sia su quello sano. In questa fase il terapista può aiutare il paziente, o destabilizzarlo con delle spinte quando ha raggiunto un buon controllo dell’equilibrio. Quando il paziente ha recuperato una buona deambulazione si procede con l’eseguire un percorso propriocettivo composto da cuscini che hanno una diversa consistenza e deformabilità, in modo da adattare il passo e stimolare i recettori propriocettivi durante la camminata su un terreno non omogeneo
RINFORZO MUSCOLARE
Nella riattivazione motoria, dopo un qualsiasi trauma, distorsivo o meno, ricopre un ruolo fondamentale il rinforzo muscolare , in quanto un buon trofismo dei muscoli riduce il rischio di lesioni recidivanti e permette al paziente di riprendere a pieno regime le attività che svolgeva prima dell’incidente. Nella rieducazione della caviglia dopo una distorsione dobbiamo prestare particolare attenzione ai movimenti che andremo a far compiere al paziente, in modo tale da non procedere subito con esercizi che possono recare danni al comparto che ha subito il trauma. Per questo motivo è meglio cominciare con esercizi molto leggeri, divisi in più serie con poche ripetizioni Lo strumento più utilizzato per il rinforzo muscolare è l’ elastico , in quanto permette di dosare il carico ed è molto versatile per questo tipo di esercizi. Gli stessi esercizi possono essere effettuati con l’ausilio di una palla di spugna . Quando il paziente è in grado di camminare senza evidenziare zoppia e senza accusare dolore nella zona interessata si può procedere con l’esecuzione di esercizi a carico completo. Possiamo dividere questi esercizi in due categorie. La prima è per il potenziamento dei muscoli della gamba, più precisamente per quelli della loggia posteriore. La seconda invece è mirata al potenziamento dei muscoli della coscia.
IL RECUPERO DEL GESTO
La fase successiva è quella del recupero del gesto atletico, che è mirata non solo a l recupero della meccanica del passo normale, ma al recupero ottimale per tornare a svolgere attività fisiche come prima dell'infortunio
LA RIABILITAZIONE IN ACQUA
La riabilitazione in acqua prevede l'esecuzione di esercizi, molte volte gli stessi che si eseguono in palestra, con il corpo parzialmente immerso nell’acqua
Questo tipo di riabilitazione sfrutta alcune leggi fisiche come:
Principio di Archimede
Reazione Viscosa
Anche la riabilitazione in acqua si divide in tre parti:
Rieducazione propiocettiva
Rinforzo Muscolare
Recupero del Gesto
La Rieducazione propiocettiva
si invita il paziente a camminare lungo la vasca mantenendo sotto il piede una tavoletta galleggiante in modo da creare una situazione di instabilità continua durante le varie fasi del passo.
Il Rinforzo Muscolare
esercizi con lo step , flesso-estensione delle gambe con sostegno di un galleggiante, nuoto a stile libero con le pinne in modo tale da aumentare la resistenza dell’acqua, camminate con attrezzi che aumentano la resistenza dell’acqua nello specifico del gesto e movimenti di adduzione, abduzione e flesso-estensione della gamba da stazione eretta.
Il Recupero del Gesto
andremo ad eseguire vari tipi di camminata , in avanti, all’indietro, laterale, corsa nelle tre direzioni, balzi , saltelli e tutte le altre situazioni a cui si può andare incontro durante il ritorno all’attività da parte del paziente. Tutti questi esercizi potranno subire variazioni come, ad esempio per il cammino, camminare in avanti prima esasperando la flessione del ginocchio andando quasi a toccarsi la zona addominale, oppure mantenendo le gambe rigide.
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